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Behind the Grindadráp

Luci e ombre dietro alla più controversa delle tradizioni europee

Una doverosa premessa:

Questo è un articolo destinato a essere controverso, dal momento che non esistono parole miracolose e tali da consentire di trattare l’argomento senza suscitare, da una parte o dall’altra, reazioni di rabbia, scalpore, o – nel migliore dei casi – semplice indignazione.  Del resto, la riflessione intorno al fenomeno del Grindradráp va ben al di là del semplice problema etico interessando aspetti di ordine economico, sociale e, non ultimo, culturale, i quali vengono sovente ignorati, o privati della giusta considerazione perché lontani e, forse, piccoli davanti all’impatto comunicativo delle immagini che ogni anno, in questo periodo, giungono sino ai quotidiani europei. Quest’ultimo appunto fa sorgere, più o meno spontanea, un’altra domanda: ha davvero senso parlare di Grindadráp, affrontare la questione da un punto di vista delle parole, quando dall’altra parte ci sono le immagini nella loro tremenda immediatezza? O, ancora: quale compito spetta alle parole, nella loro ponderata cautela, nell’era dell’immagine?

Se da un lato è vero che nessun discorso può avere, oggi, la stessa immediatezza comunicativa di una fotografia ben selezionata, resta pur sempre vero anche il fatto che il rapporto tra parola e immagine è un rapporto di reciproca necessità: la bruta intensità dell’immagine deve essere guidata, contestualizzata, per mezzo della parola, come la parola ha bisogno, per così dire, di venire affrancata alla pesantezza del reale, della fotografia.

Viene allora da sè che questo sarà, ancora, un articolo controverso, dove la parola, in questo caso tanto la mia quanto quella dei diretti interessati, cercherà di sostenere le sue ragioni, senza ricorrere al mezzo fotografico. È infine importante sottolineare che lo scopo di questo articolo non é quello di far cambiare idea al lettore: l’argomento é infatti estremamente polarizzante e, temo, non sará possibile trovare una sorta di terreno comune tra i suoi detrattori, i suoi sostenitori e chi, come me, si limita invece a cercare di comprendere.

Cenni storici, inizio della pratica e sopravvivenza ai giorni nostri

Parlare di Grindadráp come di “tradizione” rischia di farci avventurare in un territorio pericoloso: le tradizioni propriamente dette, almeno nell’accezione più diffusa del termine, tendono ad esaurire la loro ragione d’essere nella loro natura di eventi ricorrenti, importanti per una data comunità, il cui valore però giace soprattutto nel loro essere ripetuti ininterrottamente nel tempo. Vedremo allora in seguito che questa descrizione non si adatta pienamente al fenomeno del Grindadráp, che invece ha ancora una sua fondatezza concreta, una sua, seppur limitata, necessità d’essere. Nel Grindadráp (lett. Grind- balena e dráp- uccisione) la componente tradizionale è data tanto dal ripetersi con cadenza (più o meno) annuale del fenomeno quanto dal fatto che il metodo di caccia utilizzato è rimasto pressoché invariato, per metodi e regolamenti, da svariati secoli: questo prevede l’accerchiamento del branco di cetacei per mezzo di piccole imbarcazioni che successivamente, spingono gli animali a riva dove vengono, infine, abbattuti per poi essere lavorati in loco o presso alcuni impianti dedicati.

Da un punto di vista storico, non è facile stabilire come e quando la pratica abbia avuto inizio, ma è probabile che, vista la difficile posizione dell’arcipelago e l’assenza di terreno coltivabile la caccia alla balena, insieme alla pesca, abbia rappresentato la principale fonte di sostentamento già per i primi abitanti (IX sec.), e che sia andata poi evolvendosi sino ad assumere la forma e la portata attuale. Un aspetto però non trascurabile e che aiuterà a contestualizzare maggiormente il fenomeno è dato dal fatto che la caccia alla balena, proprio in virtù del suo essere la principale fonte di sostentamento di determinate popolazioni, sia stata sin dal principio regolamentata da appositi sistemi di leggi a tutela degli animali interessati: tali leggi, citate in alcuni codici norvegesi e nella Sheep Letter faroese (1298) prevedevano delle limitazioni al numero di animali abbattuti ogni anno, in modo da non pregiudicare la sopravvivenza delle specie e, di conseguenza, quella dei pescatori che se ne traevano sostentamento. Nel corso dei secoli, l’attenzione verso questo aspetto non è venuta meno e sono stati istituiti particolari registri dove venivano riportati i numeri di animali abbattuti ogni anno: nel caso delle isole Faroe, questi vengono tutt’ora utilizzati e sono disponibili e consultabili i dati a partire del 1709. Ma, come abbiamo detto, la situazione faroese è anomala rispetto a quella del resto dei paesi che, in tempi più recenti, hanno quasi totalmente abbandonato la caccia alla balena: l’incapacità del terreno di supportare l’attività agricola, ha fatto si che la caccia alla balena mantenesse quella sua dimensione necessaria, culturale, ricoperta, a tratti, da un alone di sacralità dove è il mare, nella sua vastità inesplorata, a garantire la sopravvivenza della comunità.

Alla luce di quanto detto finora è evidente che il dibattito intorno al fenomeno debba tenere conto di tre questioni principali di natura differente: la prima, di natura etica ruota intorno agli interrogativi “quanto è etico il consumo di derivati animali?” e “esistono allora forme di sfruttamento più etiche di altre?”. La seconda e la terza questione, invece, rispettivamente di ordine sociale e culturale, ruotano intorno agli interrogativi “è ancora necessario, in una qualche misura, il consumo di carne di balena?” e “fino a che punto può, la componente culturale, giustificare simili pratiche?”.

Come avremo modo di vedere, questi interrogativi sono ancora privi di risposta.

Un secondo punto di vista

Ho chiamato T pochi minuti dopo aver visto le prime notizie al telegiornale: già sui social le immagini del Grindradráp della settimana prima erano rimbalzate da una pagina all’altra, e da tempo avevo pensato di scrivere qualcosa in riguardo: lei ha acconsentito a rispondere a qualche domanda il giorno stesso.

Quello che segue è un estratto della nostra conversazione, svoltasi sotto forma di intervista.

E: La prima domanda che mi sento di farti è piuttosto semplice: credi che ( il Grindradráp ) sia parte della tua identità culturale?

Ho sentimenti contrastanti a riguardo. Personalmente lo ritengo parte della nostra identità culturale collettiva. Per molte persone è ancora un aspetto importante della vita, un legame con il passato che non si è mai allentato del tutto, mentre altre persone si dicono indifferenti alla cosa, non sono propriamente favorevoli, ma nemmeno contrari.

Se parliamo invece della collettività le cose sono diverse: è indubbiamente una parte importante della nostra storia, abbiamo decine di canzoni, storie e “saghe” a riguardo, questo perché per anni la sopravvivenza delle persone è dipesa solamente dall’arrivo delle balene. C’è per esempio questa storia risalente al tempo dei nostri nonni che parla di una terribile carestia, con i pastori giunti sul punto di abbattere anche le ultime pecore pur di mangiare: allora la vita nelle Faroe venne salvata dall’arrivo di un branco di balene a pochi giorni dal natale. Lo chiamiamo Jolagrindr, e molte persone sono convinte ancora oggi che si sia trattato di un evento miracoloso (God given).

E: molte persone però obiettano e sostengono che non ci sia più la necessità di ricorrere alla carne di balena.

Anche in questo caso ho pareri contrastanti: è vero che il benessere nelle isole è andato aumentando negli ultimi anni, ma c’è ancora una certa disparità tra l’aumento del costo della vita e l’aumento dei salari. Spesso si crede che i faroesi siano benestanti, è un pregiudizio comune nei confronti degli abitanti delle regioni scandinave, ma si tratta, appunto di un pregiudizio. La maggior parte del cibo e delle risorse viene importata dall’esterno, così che i costi, specie per quanto riguarda frutta e verdura (ma anche carne e derivati animali) sono piuttosto elevati.

Ti direi che in un certo senso può essere vero, che una buona parte della popolazione (ma non tutti) possa oggi sopravvivere senza ricorrere alla carne di balena, ma questo vale solo a patto che la società resti quella che è oggi: che la nave con i rifornimenti arrivi ogni settimana, che le condizioni lo permettano, che la situazione economica lo renda profittevole per chi gestisce la cosa. Insomma, stiamo parlando di equilibri delicati che oggi, dopo la pandemia, sembrano ancora più fragili.

E: hai parlato di “una buona parte della popolazione”, ma non di tutti.

Come ho detto la gente qui non è mediamente benestante: chi ha sempre fatto il pescatore, o il pastore ha ancora delle difficoltà, sia nell’adeguarsi al nuovo mondo sia difficoltà economiche di base: non tutti possono permettersi l’acquisto di beni al supermercato, ad esempio. Per certe persone la carne di balena è ancora una questione di sopravvivenza pura o quasi, una fonte gratuita di proteine, possiamo dire.

E: Gratuita?

Sì. La carne di balena, il cosiddetto Grindr, viene distribuita gratuitamente, non viene venduta. L’unico commercio tollerato è quello durante le feste nazionali, ai banchetti. Proprio perchè nella mentalità collettiva la caccia alla balena è legata alla sopravvivenza è impensabile (cultural abomination) che qualcuno possa pensare di venderla: le persone potrebbero smettere di parlarti, se solo ci provassi. Ora le cose stanno cambiando e qualcuno la vende, privatamente, ad alcuni ristoranti, ma non è – ancora – la norma. Si tratta di un bene collettivo, di una risorsa per la sopravvivenza di tutti, non di un qualcosa da cui trarre profitto. Io stessa, dopo aver perso il lavoro, ho passato un periodo piuttosto difficile e non so cosa avrei fatto se non avessi avuto accesso a quella fonte di cibo.

E: già in passato ne abbiamo parlato, ma immagino tu sappia che questa pratica è molto contestata.

Credo che le persone abbiano difficoltà a realizzare che viviamo in mezzo all’oceano e che la nostra identità, culturale e non, si basa su questo. Parliamo di un Paese dove la corrente elettrica è arrivata, si fa per dire, nella seconda metà del secolo scorso, anche piuttosto tardi. Non è che qualche decina di anni che possiamo contare sull’importazione “costante” di cibo, prima di allora c’erano solo la pesca, le pecore e la carne di balena. La transizione è in atto, inutile negarlo, ma richiede tempo: non si può pensare che un popolo, anche piccolo, cambi la propria mentalità da un giorno all’altro. Ci vuole tempo, e prima o poi, se la situazione lo permetterà, scomparirà del tutto. Non ci si può aspettare che le cose cambino dall’oggi al domani e, di certo, non per imposizione esterna.

C’è poi da considerare un’altra cosa: se la pratica scomparisse, ora come ora, e ci dimenticassimo come fare, dismettessimo le barche, etc.: cosa accadrebbe, poi, nel momento in cui – per qualsiasi motivo – dovessimo trovarci di nuovo nella situazione (nel bisogno) di ricorrere a questa fonte di cibo?

E: Credi che il Grindradráp sia una tradizione crudele?

Qualsiasi uccisione lo è, non esistono uccisioni non crudeli. In questo, le foto che circolano sono piuttosto realistiche, c’è sangue, tanto, come ce ne è quando si uccide un maiale, o una mucca. C’è sangue, ed è crudele, anche quando i pesci muoiono a migliaia negli allevamenti.

Le persone qui hanno grande rispetto per le balene, la consapevolezza che queste hanno dato la vita per noi non viene mai meno. Questo è uno dei motivi per cui vendere la carne è considerato un abominio, un orrore: non si toglie una vita a cuor leggero, e non lo si dovrebbe fare per il profitto economico. Si cerca allora di utilizzare tutto quello che si può, carne, grasso, pelle, e di restituire poi il resto al mare,

E: parliamo allora dell’impatto ambientale e delle conseguenze sulla conservazione delle specie.

C’è sempre un occhio di riguardo verso la tutela degli animali, come del resto è sempre stato: sin dall’inizio della pratica si è sempre cercato di non uccidere più animali di quanto non fosse necessario: ci sono leggi del 1100 in materia, proprio perché come già detto, ma è sempre il caso di ribadirlo, non si tratta di una caccia fine a sè stessa, ma è strettamente legata alla sopravvivenza della popolazione. Ad esempio, ancora oggi vige il divieto di utilizzare strumentazioni moderne per la caccia.

Quanto all’aspetto ambientale, abbiamo avuto modo negli anni, anche grazie alla caccia alla balena di vedere quanto drammatica sia la situazione dei nostri oceani: sempre più animali hanno lo stomaco pieno di plastica, e il consumo di carne di balena, ma anche di pesce, sta diventando sempre più pericoloso per via dell’inquinamento da mercurio.

E: Quale credi sia il futuro di questa pratica?

Prevedere il futuro è difficile e nessuno può farlo: occorre però dire che le tradizioni non si portano avanti per inerzia. Non so dire quando e come la tradizione avrà fine, potrebbe essere che un giorno gli oceani saranno talmente inquinati da non poter più supportare la vita, nè quella degli animali nè la nostra. Oppure potrebbe essere per un centinaio di altre ragioni, ma sono abbastanza convinta che un giorno avrà fine: anche qui, ho sentimenti contrastanti.

E: Ad essere onesti, però, l’ultimo evento di caccia ha destato più scalpore del solito per via del numero di animali uccisi, soprattutto delfini.

Sì. è vero. Si è trattato di un evento imprevisto, e che ha suscitato reazioni forti anche qui, tanto che molti ne hanno preso le distanze.

E: Un’ultima domanda, cosa pensi delle organizzazioni che da anni si battono contro questa pratica?

Credo che non si debba mai generalizzare. Molte organizzazioni si sono mostrate aperte al dialogo, a vedere le cose dal nostro punto di vista. Altre invece si sono mostrate più aggressive e conosco persone che hanno ricevuto minacce, anche di morte. Attacchi di questo tipo producono spesso l’effetto contrario a quello sperato, innescando reazioni, da una parte e dall’altra, che conducono a scenari pericolosi. Posso capire però che sia difficile, per chi la vede da fuori, comprendere la complessità della cosa. Come ti ho detto, anche io ho pareri contrastanti a riguardo.

7 commenti su “Behind the Grindadráp”

  1. Molto interessante, mi ha fatto capire (in parte) come ci si sente a stare dall’altra parte. D’altronde a cercare di capire usi e costumi di diverse popolazioni ci arricchisce e ci fa aprire la mente
    Grazie

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