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Ég ætla að fá einn americano – Studio semi antropologico sulla cultura del caffè in Islanda

Ogni comunità ha una serie di oggetti, usi o preparazioni che considera importanti al fine di determinare una parte piú o meno grande della propria identità. Per dirla in altre parole, queste sono parte della sua cultura. Cultura è un termine difficile da inquadrare: fenomeni “culturali” sono infatti oggetto di studio da parte di diverse discipline, ciascuna delle quali ha elaborato nel corso degli anni una sua definizione di questo concetto, di volta in volta piú utile all’uno o all’altro scopo. In linea generale peró, prendendo in prestito alcuni elementi dalla definizione “antropologica” di cultura, possiamo dire che questa consista nell’insieme di norme, conoscenze, pratiche, comportamenti (…) valori, che un individuo acquisisce in quanto parte di una certa comunità.

Nel caso specifico di cibi e bevande non è sempre automatico determinare se, ed eventualmente in che misura, questi siano considerabili parte di una certa cultura: per farlo occorrerebbe analizzare infatti non solo la frequenza con la quale vengono consumati, ma anche i contesti associati al loro consumo e se, e in caso di risposta affermativa fino a che punto, la loro importanza è riconosciuta da i membri della comunità. Quando si parla di caffè fortunatamente, la cosa è relativamente semplice o, se vogliamo, più semplice che altrove: stiamo parlando infatti di una bevanda ormai diffusa a livello globale e che ha assunto in ogni paese una sua forma ben definita che, sebbene permeabile a influenze esterne, appare quasi sempre legata alla cultura di quel determinato Paese. Nonostante il caffè sia infatti ormai onnipresente, ad esso si associano decine di preparazioni diverse, ciascuna delle quali appare legata a particolari dinamiche e contesti e che difficilmente sarebbero ugualmente apprezzate – o percepite allo stesso modo – al di fuori del loro contesto originario. Non solo: in certi casi queste modalità di preparazione e di consumo assumono la forma di veri e propri rituali, tanto individuali quanto collettivi e collegati in maniera univoca all’una o all’altra comunità.

Infine, vale la pena sottolineare che la diffusione di un certo tipo di caffè , o di una certa preparazione invece di un’altra, non è quasi mai una semplice questione di gusto, ma che altri fattori entrano in gioco, alcuni dei quali sono legati in maniera più o meno indissolubile alla sfera della socialità e alla concezione che una determinata comunità ha del tempo, del lavoro, etc. Insomma: il caffè non è solo il caffè, ma è anche il modo in cui lo beviamo, il nostro modo di interagire con le persone mentre lo facciamo, le occasioni in cui lo beviamo (e come queste si relazionano con la nostra routine giornaliera, con la nostra vita sociale, etc.) e il ruolo che ad esso attribuiamo all’interno della nostra sfera personale, prima, collettiva e culturale poi.

Nel contesto italiano, una particolare attenzione è posta nei confronti dell’espresso, tipologia ormai universalmente diffusa e che costituisce la base per altre apprezzatissime preparazioni “italiane” tra cui il cappuccino e le varie tipologie di macchiato. Il metodo espresso è ormai relativamente standardizzato e diffuso, seppur con qualche variazione, in tutto il mondo: il caffè in questione si ottiene facendo passare dell’acqua ad alta pressione attraverso uno strato di spessore variabile di polvere di caffè , raccolta in un filtro, ottenendo così l’estrazione, da questa, della caffeina e delle varie componenti aromatiche. Variazioni nella quantità di polvere, nella macinatura, della pressione e della temperatura dell’acqua possono essere implementate nel processo per ottenere prodotti finali differenti o per conferire particolari note aromatiche al caffè così ottenuto: il risultato comunque, è quasi sempre una tazzina di piccole dimensioni con all’interno pochi grammi di liquido, tale da poter essere consumata in uno-due sorsi.

Nonostante la sua straordinaria diffusione, è opportuno ricordare che non solo quella appena descritta è solo una delle maniere per degustare e apprezzare il caffè, ma anche che si tratta di una preparazione relativamente recente: se l’arrivo del caffè in Italia si fa risalire al 1570, con la prima caffetteria aperta nel 1683, il primo caffè espresso vede la luce solamente nel 1901, per poi essere diffondersi grazie alla celebre macchina per caffè “Ideale“, la prima ad essere prodotta in serie. Non solo: è opportuno notare che il caffè ottenuto in questo modo, fatta eccezione per la velocità con la quale poteva essere prodotto, aveva ben poco in comune con l’espresso attutale: doveva infatti apparire nero, con un distinto sentore di bruciato per via delle alte temperature raggiunte (130-40 gradi, contro i 90 attuali), privo della caratteristica crema e piú simile, nel complesso, ad un caffè filtrato che ad un espresso attuale. La fortuna di questa preparazione, almeno in questa prima fase, è quindi da ricercare non tanto nel gusto, ma nel fatto che questo poteva essere preparato e consumato relativamente in fretta, senza nemmeno doversi sedere: non è un caso infatti se il primo espresso-bar della storia il Caffè Maranesi, venne presto soprannominato “Caffè de’ Ritti“, dove i “ritti” erano appunto i clienti che bevevano il caffè in piedi. Solo negli anni trenta del ‘900 figure come Francesco Illy, Achille Gaggia ed altri si iniziò a lavorare sul gusto oltre che sulla velocità d’esecuzione e solamente dal 1947 il caffè espresso prese a prendere forma e gusto confrontabili con quelli attuali per poi, infine, diventare il prototipo del caffè italiano.

Dalla storia di questa particolare preparazione, possiamo intuire come la diffusione dell’uno o dell’altro tipo di caffè non sia solo una mera questione di gusto, ma che altri fattori (velocità di preparazione, etc.) entrano in gioco nel determinare il successo o meno di una determinata preparazione: se l’espresso non fosse stato in grado, sin dagli inizi, di ritagliarsi la sua posizione e il suo ruolo nella società e nella vita degli italiani e di circondarsi di una serie di rituali (la pausa caffè, ad esempio) difficilmente sarebbe stato poi perfezionato fino diventare il prodotto che conosciamo oggi. Quello italiano, nonostante la sua diffusione nel mondo, rappresenta solo uno dei possibili sviluppi della storia del caffè, e come tale presenta una serie di pregi e di difetti. Altri Paesi hanno poi inventato, o perfezionato, altri tipi di preparazione, talvolta molto diversi dall’espresso.

Veniamo ora però al contesto islandese.

Qui, entrando in una qualsiasi caffetteria – tanto quelle del centro di Reykjavík quanto quelle più remote – e chiedendo un caffè normale non ci vedremmo consegnare una tazzina di espresso, ma una tazza fumante di caffè filtrato, spesso versato da contenitori thermos dalla capienza di 2-3 litri. Questo tipo di caffé si ottiene facendo gocciolare (da qui l’inglese drip-coffee, caffè gocciolato) l’aqua calda, ma non pressurizzata, su di un filtro contenente la polvere di caffè con un procedimento che richiede in genere qualche minuto. Questo tipo di preparazione è relativamente sconosciuto in Italia, dove viene spesso confuso con il caffè americano simile nell’aspetto, ma ottenuto a partire dall’espresso e con un gusto molto, molto diverso.

Le due formulazioni, molto diverse l’una dall’altra, rispecchiano la differenza i due contesti e le relative “culture del caffè”, molto diverse e difficilmente paragonabili l’una all’altra per gusto e concezione. Le due preparazioni, espresso e caffè filtrato, si prestano infatti a contesti e formule di consumo diversi, difficilmente intercambiabili: se il primo può essere preparato e gustato in pochi istanti, il secondo richiede qualche minuto per essere preparato e si presta di più ad essere consumato a piccoli sorsi, lentamente, magari seduti al tavolo di una caffetteria mentre si lavora o si studia.

Caffè filtrato in una caffetteria del centro di Reykjavík

Sul caffè in Islanda

Mentre scrivo sono appoggiato al bancone dell’area bar di una stazione di servizio lungo la costa sud. Ho appena ordinato un caffe espresso, il quarto della giornata per me (due a Vík, in una nota caffetteria e uno a Hella ). Il ragazzo dietro al bancone ha appena preso un bicchierino di carta e lo ha appoggiato sotto la bocchetta di un distributore automatico. Preme il tasto “espresso” e il macinino entra in funzione, i chicchi vengono ridotti in polvere e in pochi secondi l’acqua inizia a scorrere. Dal bancone vedo tutta la scena, vedo il distributore marcato ****** (una marca poco nota, parte di una grossa multinazionale che fa un po’ di tutto, dai soft drinks alle caramelle), i chicchi sono molto scuri, il caffè, temo – sarà molto amaro.

La cosa mi riporta alla mente alcuni episodi risalenti al periodo della mia formazione come barista: in un’occasione dovetti preparare una decina di espresso (espressi?), uno di seguito all’altro, ma con macinature e tempi d’estrazione diversi: il principio è relativamente semplice, dal momento che le sostanze acide sono più facili da estrarre, un caffè estratto in pochi secondi sarà più aspro di uno ad estrazione più lunga. La parte oleosa e altre componenti aromatiche vengono invece estratte solo nelle ultime fasi e un’estrazione troppo rapida risulterebbe nell’assenza della caratteristica crema e di una parte del gusto associato al caffè. Ma non è solo questione di tempi: la scelta dei chicchi, la loro provenienza e il tipo di tostatura sono altrettanto fondamentali: una tostatura troppo scura, quasi bruciata, rovinerebbe completamente il gusto del caffè ottenuto indipendentemente dalla provenienza dei chicchi e dal tempo di estrazione. Le note amare che spesso associamo al caffè, per esempio, sono in genere una conseguenza di un’estrazione troppo lunga o di una tostatura troppo scura, talvolta utilizzata per nascondere imperfezioni della materia prima.

Torno al mio caffè, che in effetti è amaro e quasi imbevibile. Per sciacquarmi la bocca ordino un secondo caffè, filtrato: in questo caso il ragazzo mi porge una tazza e mi indirizza verso un thermos, che mi dice aver appena riempito, sul quale compare il logo di un’altra compagnia, questa volta islandese: la conosco poco, ma so tra le varie cose che questa importa i chicchi da vari paesi e si occupa poi della tostatura. Da anni mi riprometto di entrare in una delle loro caffetterie, ma non ho ancora avuto l’occasione. Il gusto di questo secondo caffè è delicato, non amaro e lo bevo con piacere nonostante non sia piú caldissimo. Mi riporta alla mente i mesi passati nelle fattorie del Nord dell’Islanda, quando la caffettiera entrava in funzione alle nove, mentre fuori era ancora buio, e in pochi minuti la casa veniva riempita dal profumo. Ci si trovava poi al tavolo della colazione, ancora assonnati, davanti a una tazza di caffè da sorseggiare lentamente prima di uscire per controllare i cavalli e le pecore nella stalla: quella prima colazione, alla quale in genere ne seguiva una seconda a lavoro compiuto, poteva durare anche un’ora durante la quale il caffé faceva in tempo a raffreddarsi. Lo stesso profumo ci accoglieva quando, verso le cinque, si faceva ritorno a casa, magari dopo una giornata di lavoro: io in genere mi occupavo di scattare foto ai cavalli e rincorrerli per le montagne, e Anna – la nostra “mamma” islandese – era solita rientrare in casa qualche minuto prima di noi, che trovavamo così la tavola imbandita, il caffè nel thermos arancione e una vasto assortimento di torte: la giornata era ufficialmente finita e quello era il nostro premio.

Un’oretta piú tardi sono a Selfoss, in una caffetteria-libreria: ordino un caffè filtrato, ma la signora al bancone mi dice che è finito e che, dal momento che chiuderà a breve non vorrebbe farne altri due litri. Mi offre allora un americano che accetto comunque volentieri. Da uno degli scaffali prendo un libro che avevo già adocchiato in passato. Da questo apprendo che la storia del caffè in Islanda è sì recente, ma non tanto quanto avrei immaginato: la prima volta che il caffè viene menzionato è infatti in una lettera del 1703 che l’avvocato Lárus Gotturp manda al professore e collezionista di manoscritti Árni Magnússon, forse il primo islandese a bere caffè. Nella lettera in questione, si fa riferimento ad una piccola quantità di caffè spedita ad Árni, circa 150 grammi da parte dello stesso Lárus, che afferma di non trovare particolarmente gradevole il gusto di quella particolare bevanda. Per anni il consumo di te e caffè rimase prerogativa degli ufficiali danesi e pare la pratica si sia estesa a rappresentati del clero e a pochi nobili islandesi solo a partire dal 1760(circa). Durante gli anni ’70 del diciottesimo secolo il consumo di caffè in Islanda tende a farsi via via piú comune, come testimoniato da alcuni ritrovamenti di caffettiere, teiere e altri oggetti legati al consumo del caffè tra i possedimenti di alcune famiglie benestanti, mentre un’eccezione sembra essere particolare è invece il ritrovamento di alcune caffettiere e di un primo macinino tra gli averi di un contadino, tale Þorvaldur Jónsson, risalenti al 1781-85. Nel 1776, i chicchi di caffè fanno la loro comparsa nei registri delle spedizioni, ma è solo tra il 1819 e il 1840 che il caffè inizia a diventare popolare: in questi anni la quantità importata passa da 5 a 44 tonnellate, per poi passare a 152 tonnellate (1849) e a 213 solo sei anni più tardi, nel 1855. Questo aumento nel consumo di caffè non dovette passare inosservato come evidenziato da un testo del 1849 nel quale il reverendo Ólaf Sívertsen evidenzia come ormai non ci fosse piú un posto in tutto l’Ovest (d’Islanda) dove il caffè non fosse universalmente apprezzato. Negli anni successivi, l’aumento della produzione di caffè a livello globale e l’abbassarsi dei prezzi avrebbero poi reso il caffè accessibile alla quasi totalità della popolazione islandese. Riferimenti alla passione degli Islandesi per il caffè compaiono anche in alcune importanti opere letterarie islandesi, come il romanzo Sjálfstætt fólk, (in italiano, Gente Indipendente) e nel racconto Aðventa (in italiano, Il Pastore d’Islanda) dove troviamo la famosa citazione:

Hvað kaffi er, veit sá einn er hefur sopið það í holu neðanjarðar í þrjátíu stiga frosti uppi á reginöræfum með fjöll og fárviðri allt í kringum sig.
(Chi non l’ha mai bevuto in una buca nella terra, a trenta gradi sotto zero e in mezzo a un deserto di montagne e tempesta, non sa cos’è un caffè, Il Pastore d’Islanda, trad. di Maria Valeria d’Avino, Iperborea, p.85)

La tendenza osservata durante il secolo scorso non sembra oggi essersi invertita: il numero di caffetterie a Reykjavík è ormai in continua ascesa e, se le grandi catene internazionali faticano ad inserirsi nel contesto islandese, la loro mancanza si sente a malapena e al loro posto si trovano invece più piccole catene locali. Di queste, una buona parte si occupa direttamente dell’importazione, della scelta e della tostatura dei chicchi, con una sensibilità e un’attenzione nei confronti della materia prima che si ritrova poi nella tazzina. In genere queste caffetterie, pur mantenendo una dimensione, mi si passi il termine “popolare” offrono la possibilità di provare e degustare diversi tipologie e tostature di chicchi, talvolta acquistabili poi anche per il consumo domestico. I dati sono facilmente reperibili online: Te og Kaffi, ad esempio, ha nel suo store una quindicina di tipologie di caffé, Kaffitár ne ha una decina (non considero le varietà aromatizzate) mentre Reykjavík Roasters ne ha al momento una decina in catalogo.

Una nota particolare meritano poi le caffetterie che servono i cosiddetti “speciality coffee“, termine, entrato in uso a partire dagli anni ’70 per indicare quei caffè prodotti in speciali condizioni climatico-ambientali, tali da conferire particolari aromi, e accuratamente selezionato per rispondere a esigenze particolari. La diffusione di questo nuova tipologia di caffetteria, al momento limitata quasi esclusivamente alla sola area urbana di Reykjavík, sta infatti avendo importanti conseguenze sul modo in cui gli islandesi percepiscono e bevono il caffè, permettendo loro di assaggiare, provare e conoscere diversi tipi di caffè, provenienti da Paesi e ambienti diversi, ciascuno con le sue particolarità.

Tempi moderni

Prendo l’ultimo caffè della giornata intorno alle 17, sono in centro Reykjavík, e il barista mi chiede se preferisco una miscela proveniente dal Kenya, con note di vaniglia e marzapane o una che invece viene dalla Colombia, con note di mirtillo e cioccolato: scelgo la prima per una tazza di caffè filtrato e la seconda per espresso. Il ragazzo dietro al bancone prende una busta, mi fa sentire il profumo e procede a macinare i chicchi, a disporre la polvere nel filtro con cura maniacale e dopo 31 secondi ho il mio espresso pronto da bere: svuoto la tazzina in un sorso, sento distintamente le note acide di testa, fruttate, seguite da quelle amare – ma non bruciate -, la tostatura dei chicchi è infatti media, come piace a me. Ci vogliono cinque minuti prima che il mio caffè filtrato sia pronto, mi viene data una caraffa che porto al tavolo dove sono seduto e al quale sto lavorando ad un paio di articoli: lo bevo poco a poco, è incredibilmente leggero, potrei berne a litri, e anche una volta raffreddatosi non mi dispiace, anzi. Sul bancone sono appoggiate alcune riviste dedicate al mondo del caffè, ne prendo in prestito un paio e prometto di restituire il giorno dopo, pur sapendo che me ne dimenticherò e mi avvio verso casa, con un po’ di caffè nel mio thermos.

Leggo una delle riviste che ho “preso in prestito“. Recentemente, il sito WordAltas ha stilato una classifica dei Paesi in cui si beve più caffè: la classifica è stilata in base al consumo pro-capite e l’Islanda vi occupa la terza posizione, con un consumo pro-capite di 9kg di caffè all’anno: in testa ci sono Finlandia (12kg) e Norvegia (9.9kg). In questa classifica, l’Italia si colloca al 13esimo posto. Una seconda classifica, stilata questa volta da Quartz sembra confermare i risultati di Finlandia e Norvegia, ma spostando l’attenzione sul numero di tazzine consumate al giorno, la classifica cambia sensibilmente: in testa al podio figurano ora i Paesi Bassi seguiti da Finlandia e Svezia, l’Islanda in questo caso non fa parte del campione analizzato, e l’Italia si colloca al 52esimo posto.

Queste classifiche lasciano sempre un po’ il tempo che trovano e la loro lettura richiede una certa cautela. Eppure i dati in esse contenuti non possono certo essere trascurati, mostrando in maniera piú o meno inequivocabile come quella tra gli islandesi e il caffe non sia solo un’infatuazione temporanea, ma quest’ultimo sia ormai una parte importante, se non fondamentale della socialità e della quotidianità in Islanda con Reykjavík che si sta dimostrando in grado di attirare a se una grande comunità di appassionati, desiderosi di provare questa “cultura islandese del caffè”. Questo sembra trovare una ulteriore, parziale, conferma, nell’attenzione che gli islandesi rivolgono nei confronti della materia prima e nella loro tendenza a sperimentare e a ricercare continuamente nuovi gusti e nuovi modi di preparare e gustare il caffè: non più solo caffè filtrato – che oggi rimane la varietà più amata e consumata – ma anche preparazioni prese in prestito (o ispirate) da altre tradizioni, come quella italiana, sempre però declinate sulla base dell’esperienza e del gusto locale, e che come tali vanno capite, gustate e trattate resistendo alla tentazione di tessere inutili, e talvolta dannosi, parallelismi.

Erna, detta “Amma” (lett. nonna) e il suo caffé, che beve uguale ogni giorno da ormai quasi 40 anni.

4 commenti su “Ég ætla að fá einn americano – Studio semi antropologico sulla cultura del caffè in Islanda”

  1. Ciao Enrico!
    La lettura dell’articolo è stata molto piacevole ed è stato bello seguirti scorrazzare per le caffetterie islandesi.
    In ogni pezzo del tuo blog si denota la cura e l’attenzione che poni verso i contenuti e i tuoi lettori/lettrici.
    Continua così!!

    Roberto

  2. Bellissimo articolo che aumenta la mia curiosità verso il caffè filtrato a cui mi sono approcciata di recente grazie ad un post di Roberto Pagani. Siete entrambi una fonte inesauribile di conoscenza, grazie

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